Koyaanisqatsi un film diretto da Godfrey Reggio (1982) presentato durante il workshop Cinema e Sogni “Vite in tumulto” per le Risonanze della Festa del Cinema di Roma del 2022, basato sulla combinazione di immagini e musica per mostrare l’effetto distruttivo della civiltà industriale sull’ambiente, tutt’altro che fuori tempo, evidenzia ancora oggi – come 40 anni fa – il contrasto fra moderna tecnologia e mondo naturale.
Koyaanisqatsi nella lingua degli Hopi significa caos causato per colpa propria e futuro incerto, gli squilibri e follie di una vita in via di degradazione, alla quale necessita un nuovo stile[1].
Questa antica popolazione, gli Hopi – il cui nome viene tradotto come “popolo pacifico” – probabilmente discendenti degli Anasazi precolombiani – sono una popolazione indigena amerinda che vive nel Sud-Ovest degli USA, stabilita fin dal 1882 nell’Arizona nord-orientale, circondata dalla riserva dei Navajo, attualmente composta da quasi 7000 membri.
Gli Hopi tramandano la loro cultura oralmente, una cultura e una lingua che non si basano sul concetto del tempo. Difatti, la lingua hopi non contiene alcun tipo di riferimento con riguardo al tempo e allo spazio, poiché la metafisica hopi, secondo Whorf, impone all’universo due grandi forme cosmiche: il manifesto/l’oggettivo e il manifestarsi/il soggettivo.
Il manifesto/l’oggettivo non distingue il presente dal passato e riguarda ciò che è accessibile ai sensi; mentre, il manifestarsi/il soggettivo si riferisce a tutto ciò che esiste e si manifesta nella mente e corrisponde al futuro.
Inoltre “l’essenza e forma tipica (del mondo soggettivo) è lo sforzo del desiderio intenzionale verso il manifestarsi”. Il manifestarsi, sebbene possa incorrere in ritardi e resistenze, è inevitabile. Il futuro è quindi “già con noi in forma vitale e spirituale”[2].
Di seguito riporto uno scritto degli anziani di Oraibi Nazione Hopi Arizona, che inizialmente si pone delle domande in considerazione del come e dove si vive, delle relazioni tra gli uomini e tra essi e la natura, sulla condivisione, affermando poi che il tempo della guerra è finito, e invitando tutta la popolazione a tirar fuori il meglio da sé nel voler contribuire a ricreare un mondo migliore, partendo dalla propria comunità. [3]
Un messaggio più attuale che mai così come il film Koyaanisqatsi.
Prendendo in prestito le parole del Prof. Sabbadini, “quella del Ventunesimo secolo è un’umanità che si sta avvicinando, e molto più rapidamente oggi che all’uscita del film di Reggio quarant’anni fa, all’incombente disastro ecologico causato dalla sua stessa avidità, all’irreparabile degrado del suo ambiente naturale, infine alla propria autodistruzione”.
Proseguendo con l’affermare che solo “attraverso un viaggio e attraverso il sogno dell’altro che abbiamo la possibilità di recuperare un tesoro che è già dentro di noi ma che abbiamo perduto e non sappiamo come recuperare. Difatti, le antiche comunità valorizzavano tantissimo i sogni, perché potevano sciogliere nodi intricati, far capire qualcosa di nuovo e trovare speranza”.
Prendendo in prestito le parole del Prof. Nesci, il lavoro svolto durante il workshop cinema e sogni è un lavoro sul sogno da un punto di vista collettivo, come un gruppo che sta insieme e condivide non solo timori e speranze ma anche i sogni dei suoi membri.
La “comunità dei sognatori”, così mi piace definire il gruppo che ha partecipato al workshop cinema e sogni e che – come la tribù degli Hopi – attraverso i sogni propri e degli altri membri, cerca delle risposte e soluzioni che possano riconnetterli e riconnetterci tutti al mondo naturale, alla comunità e alla vita stessa.
Leggendo i racconti ho notato subito che la “comunità dei sognatori” durante la visione del film ha avvertito una forte ansia, sensazione di forte inquietudine, angoscia, raccontando sogni in sorprendente connessione tra di loro.
Emerge da essi quella solitudine e necessità di riconnettersi con il mondo naturale, attraverso la presenza nei sogni di grotte, animali, paesaggi naturali in netto contrasto con un mondo che sembra avvolto dal silenzio, assenza di rumore o rumori assordanti tali da non farci ascoltare l’uno l’altro.
Nei sogni c’è il tentativo continuo di fuggire da qualcosa di terribile o sfuggire da qualcuno o forse da sé stessi tornando indietro nel tempo così come le scene riproposte nel film stesso.
Attraverso il racconto dei loro sogni e le mie sensazioni dopo la visione del film ho cercato un filo conduttore comune che si legasse in qualche modo anche ai sogni degli Hopi, una tribù legata alla propria comunità, che si mantiene in contatto con il mondo naturale e ricorda in maniera vivida le tradizioni, la storia e le persone del passato, ringraziando per il loro contributo e proseguendo il cammino non dimenticando gli insegnamenti dei loro antenati per rendere la vita della comunità migliore.
In seguito alla visione del film la mia risposta emotiva è stata perfettamente in linea con quella di molti sognatori che hanno partecipato al workshop cinema e sogni, ho avuto sensazione claustrofobiche e angosciose che in un primo momento mi hanno fatto interrompere la visione del film, per poi riprenderla il giorno dopo.
Quindi ho preferito prima leggere tutti i sogni di coloro che hanno partecipato al workshop, raccontati in seguito alla visione pre-notturna del film nell’incontro dell’indomani – per poi riprendere la visione con uno spirito nuovo, pronto ad accogliere quell’angoscia e trasformarla in un’opportunità di cambiamento.
Le mie sensazioni e i miei pensieri durante la visione del film sono stati: confusione, mancanza di speranza, imminente fine del mondo e distruzione, apatia, disinteresse, sospetto, solitudine, incertezza del domani, insicurezza, un voler tornare indietro nel tempo, silenziosa arresa, una vita senza vita, frenesia, corpi senza anima, il tempo che scorre troppo velocemente, produzione, evoluzione, sviluppo, intrattenimento, frenesia, noia, agitazione.
Dopo circa 33’ minuti all’apparire della luna piena sembra cambiare il ritmo e lo scandire del tempo, si sente voglia di normalità, come se ad un certo punto il tempo rallentasse e si fermasse qualche istante in più sui vari momenti. Calma apparente. Il tempo viene scandito più lentamente. Forse è una grande illusione, come la scritta riportata in un cartellone pubblicitario.
Dopo 42’ minuti circa vi è la sensazione di nuovo di desolazione, pericolo imminente e di devastazione, solitudine, la fine di ogni cosa, l’apocalisse e poi poco dopo una rinascita, ma con lo stesso scenario del mondo di prima della fine, la stessa desolazione.
Ritmi musicali che danno una sensazione angosciante che crea nello spettatore/ascoltatore una tensione tale da dover temere il peggio da un momento all’altro.
Quasi al minuto 50’ c’è nuovamente voglia di normalità, la ricerca forse di serenità attraverso immagini di devastazione che vengono via via come risucchiate dal tempo che sembra tornare indietro cancellando l’orrore dell’apocalisse.
Al minuto 63’ l’attenzione progressivamente si sposta verso immagini che riflettono il bisogno del contatto con la natura e il voler godere della sua bellezza.
Seppur la musica non trasmette un vero e proprio senso di pace, finalmente quell’angoscia provata fin dall’inizio sembra scomparire facendo spazio alla meraviglia nell’osservare immagini di mari, monti, cieli e nuvole, tramonti e albe.
La grotta che compare nelle immagini si ripropone fortemente nei sogni dei colleghi così come altri input; così come la necessità di riconnettersi con la natura con la nostra parte primordiale per ritrovare quell’equilibrio che la nostra società sembra aver perso.
Per riconnetterci non solo con noi stessi e la natura circostante, ma anche con l’altro, ricreando quel legame, riprendersi quel tempo ormai lontano in cui l’individuo si identificava anche con la comunità in cui viveva e contribuiva in maniera attiva e non egoistica alla sua sopravvivenza, protezione ed evoluzione, pur rimanendo connessi con gli archetipi e la natura così come alcune tribù, ed in particolare quella degli Hopi, non dimenticando il loro passato, rimanendo connessi per vivere un presente più armonioso e ricco di significati e guardando al futuro con attesa costruttiva.
Come sottolineato da una delle sognatrici, il lavoro svolto sembra soffermarsi sulla coscienza collettiva (così come accadeva nei popoli del passato) e sulla consapevolezza che quando ci mettiamo in relazione con gli altri apportiamo un cambiamento importante non solo in noi stessi e negli altri ma in tutto l’ambiente circostante, come un riflesso delle nostre azioni.
Citando il Prof. Vinci, il mondo (come visto da ogni epoca) sembra andare verso la catastrofe in un “finire” che però resta tale, “non finisce”. Tuttavia, non si tratta di rassegnarsi, ma come emerge sia nel film sia nei sogni, ricercare un “rifugio” che sia a misura di ciascuno nella sua unicità, ma anche la capacità catartica di fare i conti con le proprie angosce e lo sforzo di un costante confronto con l’atro.
Dall’analisi del Prof. Nesci nel dare un senso a questi sogni emerge un’anima segreta del film, un discorso non esplicitato che con i sogni diviene manifesto, quello che c’è stata una catastrofe nell’evoluzione della specie umana, ma anche dei risvolti capaci di stupirci.
E per concludere, come affermato da una delle sognatrici e come si evince dalla cultura Hopi: “la risposta è nella natura, perché è lì la nostra salvezza”. Non a caso quindi ho sognato, dopo il workshop, di trovarmi in un luogo o luoghi non definiti e di essere circondata da tante persone… e ricordo di aver avuto un contatto diretto e profondo, una sorta di connessione, con la madre terra…
[2] Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, Linguaggio e relatività, Roma, Castelvecchi Editore, 2017, pp. 52-59
[3] Testo tradotto dalla lingua inglese da Giovanni del Ponte – www.giovannidelponte.com