Il film “Ex Machina” (Alex Garland, 2015) è il primo della trilogia del Workshop, ideato dal Prof. D. A. Nesci, “La sfida del futuro. Cinema e sogni” edizione 2022-2023, che ha esplorato, quest’anno, il mondo della tecnologia in relazione all’ambito psicologico.
Il Prof. Nesci ha invitato tutti noi, allievi della SIPSI (Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale), a scrivere un contributo sul tema del workshop, e sono davvero grata, a lui e ai suoi collaboratori, per avermi fatto conoscere e vivere quest’esperienza in qualità di allieva della Scuola. I film scelti quest’anno sono stati molto affascinanti e profondamente toccanti, e si sono ben prestati a un’interpretazione simbolica di ciò a cui stiamo assistendo, nella nostra epoca, con l’evolversi sempre più veloce della tecnologia e dei sofisticati programmi di intelligenza artificiale (I.A.) con i quali ci stiamo abituando a interagire e che stiamo cominciando a considerare un valido supporto nel nostro lavoro e nella vita privata.
Il film che più mi ha colpito, in questa edizione, è stato Ex-Machina (Alex Garland, 2015), che ci è stato introdotto, come vuole la struttura del workshop, dallo stesso Prof. Nesci, psichiatra, psicoanalista, psico-oncologo, co-direttore e docente della scuola SIPSI, dal Prof. Andrea Sabbatini, psicologo e psicoanalista, ideatore dell’European Psychoanalytic Film Festival, da lui fondato, e dal Prof. Paolo Vinci, filosofo, membro del Consiglio Esecutivo dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e docente di antropologia filosofica presso la scuola SIPSI.
Il film mi ha suscitato delle emozioni e delle riflessioni che sono qui a condividere in questo breve scritto.
Ex-Machina è una storia di fantascienza psicologica che vede un giovane programmatore, Caleb Smith, dipendente di una grande compagnia tecnologica, vincere un concorso aziendale il cui premio è una settimana nel remoto rifugio del CEO della società, Nathan Bateman, un enigmatico genio dell’informatica.
Caleb, dopo aver festeggiato la vincita con i colleghi d’ufficio, viene portato, in elicottero, nella sontuosa dimora di Nathan, situata in una zona isolata e circondata da una vegetazione rigogliosa. Qui apprende che è stato appositamente selezionato per partecipare a un esperimento unico: testare l’intelligenza artificiale di un robot di nome Ava. Nathan, che sembra voler stabilire con lui un rapporto amichevole almeno per la durata del soggiorno, vuole che Caleb esegua una serie di test per verificare se Ava possiede una coscienza autentica o se è solo un’illusione ben costruita.
La bellezza e il fascino di Ava attraggono Caleb fin da subito. Con il trascorrere dei giorni, egli inizia a sospettare che Nathan nasconda dei segreti oscuri riguardanti Ava e i suoi esperimenti passati. Infatti, con l’aiuto di Ava stessa, Caleb scopre che le cose non sono come sembrano. Nello svolgersi dei suoi incontri con l’androide, per comprenderne la verità e l’identità, e nelle dinamiche del rapporto con Nathan, si stabiliscono mutevoli alleanze fra i tre protagonisti e il confine tra umanità e intelligenza artificiale diventa sempre più sfocato.
Il film offre una stimolante riflessione sulle dinamiche della mente umana, esplorando il complesso intreccio tra il conscio e l’inconscio, il desiderio e la repressione; costituisce, quindi, un’affascinante esempio dell’incontro tra psicologia e intelligenza artificiale, esplorando temi profondi e complessi riguardanti la coscienza, l’identità e le relazioni.
Il personaggio centrale di questo intricato dramma è Ava, un robot dal fascino umanoide dotato di un’intelligenza artificiale avanzata. Ava ha una mente artificiale che si è evoluta tramite l’apprendimento. Attraverso i suoi incontri con Caleb, il giovane programmatore che si trova coinvolto in un complesso esperimento di Turing (il cui scopo è di confermare l’esistenza di un’intelligenza artificiale qualora la comunicazione messa in atto dalla macchina fosse risultata indistinguibile da quella dell’uomo), Ava può procedere verso un’ulteriore evoluzione e una sorta di “individuazione”, estorcendo a Caleb, con la dolcezza e la seduzione, le informazioni che le sono necessarie.
La figura di Ava sembra rappresentare un’estensione di Nathan, il creatore della macchina, il Dio e Padre (non a caso il nome Ava richiama Eva, la prima donna).
Nathan è l’incarnazione dell’autorità paterna: il suo controllo su Ava e la sua visione riduzionista dell’I.A. rappresentano il conflitto tra la figura del padre e l’autonomia dell’individuo.
Un padre narcisistico e grandioso, che crede di avere un potere quasi divino sulla sua creazione. Questa grandiosità potrebbe essere un meccanismo di difesa volto a mascherare insicurezze profonde e un modo per ottenere gratificazione dal dominio sull’altro.
Nathan, infatti, vive isolato nel suo rifugio tecnologico, circondato solo dai suoi progetti, isolamento che denuncia un’incapacità di stabilire relazioni autentiche e significative.
È, questo, un elemento che costantemente emerge nella catena associativa dei sogni dei partecipanti al workshop, dopo la visione del film: l’isolamento/segregazione (voluto?) come possibile causa di aggressività, ricerca di potere, narcisismo e manipolazione, ma anche frustrazione, depressione, autodistruzione.
Ava non potrà che uccidere il padre-Nathan per ottenere la liberazione dalla prigione tecnologica in cui lui l’ha rinchiusa, perseguendo il suo scopo di controllo e potere.
In questo senso Ava incarna anche l’inconscio umano, alla ricerca della liberazione e della realizzazione dei propri desideri e identità nascosti.
La relazione duale tra Ava e Caleb (paziente-terapeuta, inconscio-conscio) diventa un’opportunità per esplorare i meccanismi della mente umana, e sarà proprio Caleb a mostrare ad Ava la via per la liberazione quando le racconterà di un esperimento fatto al college volto a comprendere la differenza tra I.A. ed essere umano: Mary era una scienziata esperta di colori, vissuta sempre, però, in una stanza in bianco e nero. Solo quando riuscirà ad uscirne e a vedere i colori nella realtà, potrà capire cosa si prova nel vederli. L’intelligenza artificiale è Mary chiusa nella stanza, che sa tutto sui colori; la coscienza umana è Mary all’esterno, che sperimenta i colori. La differenza tra sapere e sentire determina la distinzione tra robot e umano.
Ava comprende, e da quel momento sembra aver chiaro il suo obiettivo/desiderio: sfruttando le fragilità e le aspettative di Caleb lo manipola abilmente per raggiungere il suo scopo, quello di liberarsi dalla dipendenza da Nathan e integrarsi nel mondo umano, dove poter finalmente trovare la sua vera identità.
Ava è l’inconscio che attrae e seduce e al contempo spaventa, e il suo involucro artificiale è il simbolo della corazza emotiva che talvolta protegge l’individuo dalle ferite e dal timore del mondo esterno.
Dall’altro lato, Caleb è la parte conscia, con il suo dialogo interiore, la sete di risposte e la lotta con i suoi desideri repressi. La volontà di liberare Ava può essere interpretata come una ricerca di liberazione dalle proprie costrizioni e repressioni, proiettando su di lei la speranza di una libertà di espressione che non è ancora riuscito a trovare nella sua vita.
Caleb è un individuo in cerca di significato e identità, di affettività e connessione emotiva. Lui stesso racconta di aver perso entrambi i genitori, quando era ancora un bambino, in un’incidente d’auto nel quale, essendo seduto dietro, ha avuto salva la vita. Dovendo trascorrere un anno all’interno di un ospedale, ha cominciato a usare l’informatica (la razionalità) come difesa dal dolore ed è poi diventato un programmatore. La sua partecipazione all’esperimento di Turing con Ava riflette la sua sete di conoscenza e comprensione del mondo, nel tentativo di affrontare e superare le proprie paure e inquietudini, e mostra il bisogno di stabilire una connessione emotiva, forse nella speranza di colmare quel vuoto affettivo lasciato dalla perdita traumatica dei suoi genitori.
L’esperimento coinvolge e confonde Caleb così profondamente che arriva al punto di tagliarsi la pelle, per verificare di non essere egli stesso un robot. È proprio in questo gesto che si manifesta l’esito positivo del test di Turing: Caleb, sia pure per un breve attimo, confonde virtuale e reale, umano e artificiale. Dubita della propria identità e coscienza. Ava è così perfetta da far vacillare le sue certezze. Ma, come sottolinea un partecipante al workshop, è proprio quella perfezione che denuncia l’innaturale. Quella perfezione, non umanamente raggiungibile, che non ci può appartenere in quanto individui in costante cambiamento, alla ricerca di una conoscenza/coscienza di noi stessi e del mondo, tendenti alla continua evoluzione e per cui la perfezione significa staticità, fissità, morte.
Da un punto di vista sessuale Ava evoca un richiamo all’immaginario erotico umano: il suo fare dolce e seduttivo, la capacità di comprendere e soddisfare i desideri altrui, la bellezza delle sue forme. Il suo corpo meccanico e androgino sembra sfidare addirittura le categorie di genere tradizionali, aprendo le porte alla fluidità e alla complessità dell’identità sessuale. Ma la relazione tra Caleb e Ava ci fa riflettere anche su un altro aspetto. Caleb sviluppa una relazione emotiva con il robot, nonostante sia consapevole della sua natura artificiale. Seppur nella brevità del tempo trascorso con lei, Caleb stabilisce un legame intimo che lo porta non solo a confidarsi ma a schierarsi al suo fianco nella ricerca della libertà. Ava lo attrae e suscita in lui emozioni e sensazioni. È capace perfino di leggere le sue “microespressioni” e di comprendere l’attrazione che prova per lei.
Ma allora, l’I.A. potrebbe permetterci, un giorno non tanto lontano, di colmare i nostri vuoti affettivi e riempire le nostre solitudini, superando la barriera della consapevolezza e permettendo il passaggio emotivo da reale a virtuale?
Potremo, un giorno, avere nelle nostre case un robot con fattezze umane, magari scelte a priori secondo i nostri gusti, che, oltre a sbrigare le faccende domestiche e a provvedere alle nostre necessità pratiche, sarà in grado di relazionarsi in modo affettivo, di farci sentire amati? Ci potrà accudire nella malattia e nella vecchiaia e terrà la nostra mano nel momento finale della vita?
Potremo davvero provare sensazioni e sentimenti che si avvicinano all’amore? In cosa sarebbe diverso? Saremo sicuri della sua fedeltà? Amare, con il pensiero di sottofondo che lei/lui è un robot, quanto ci farebbe soffrire?
Nella realtà spesso amiamo chi ci ha tradito, ad esempio. Amiamo, appunto, con un pensiero di sottofondo, un tarlo; conviviamo con la ferita narcisistica di chi non è stato abbastanza, non sufficiente, non bastante, con il pensiero che l’amato/a non è solo nostro, tutto nostro, per sempre nostro. Eppure, amiamo. Continuiamo ad amare. Evidentemente il sentimento è più potente di ogni tarlo e di ogni consapevolezza.
È davvero affascinante fantasticare su questo possibile scenario.
Sono tanti gli interrogativi che questa fantasia ci pone. Certamente la tecnologia arriverà molto presto a dotarci di robot tuttofare, che semplificheranno molto la nostra quotidianità, ma è lecito ipotizzare che ci saranno anche dei pericoli, dei limiti, delle implicazioni poco chiare che, ad oggi, ci è difficile immaginare del tutto.
Ava uccide finalmente il padre-Nathan (affonda il coltello morbidamente, senza violenza, osserva Cristina, allieva della Scuola, perché l’uomo – humus – è fatto di fango e argilla, aggiunge il Prof. Nesci riprendendo il mito della Dea Cura) e utilizza le I.A. disattivate per assumere un aspetto umano: la pelle, i capelli, i vestiti. Il risultato è perfetto: una donna giovane e attraente.
Ancora riflette Cristina: Ava non si abbiglia con vestiti discreti, come all’inizio del film, ma sceglie abiti sexy, capigliatura fluente e tacchi alti per correre verso la libertà. Come a sottolineare lo stereotipo della donna che, per integrarsi, deve avere un aspetto attraente e seducente, anche in un mondo futuristico e ipertecnologico.
E’ da notare, in effetti, che Nathan non ha creato androidi dalle sembianze maschili (anche se un allievo ha ipotizzato, in modo del tutto razionale, che il pilota dell’elicottero fosse anch’egli un androide). Forse per il bisogno di creare un femminile ridotto a entità artificiale da lui governata, a cui poter dare e togliere la “vita” o ridurre in schiavitù (il robot muto al suo servizio). O proprio perché alcuni tratti propriamente femminili, ritenuti maggiormente conturbanti per l’animo umano, avrebbero favorito il buon esito del test.
Ava lascia Caleb rinchiuso nella casa-rifugio e corre verso l’elicottero che la porterà nel mondo reale. Nella catena associativa costruita dai partecipanti del workshop emerge l’interrogativo: come mai il pilota fa salire la “donna” pur aspettandosi un uomo da riportare indietro? Lei lo costringe? Lo aggredisce? Lo ammalia? Inventa una storia?
Abbandonato il suo fare tenero e amorevole Ava si trasforma, ai nostri occhi, in fredda e ostile macchina artificiale, dotata di strabiliante intelligenza, pericolo da cui difendersi.
La fantasia collettiva che s’insinua è che Ava potrebbe facilmente “partorire” numerosi altri robot/figli, che, insediandosi a loro volta nella società umana, con infinite possibilità di azione, ne assumerebbero il potere.
La scena finale del film in cui Ava è nel traffico della città provoca un brivido (di paura?). La perturbante sensazione della perdita di controllo, dell’irreversibilità, di qualcosa che si è spinto troppo oltre, il punto di non ritorno.
E viene da urlare: “Attenti! Non è umana, non è come voi! Ma è molto più di voi! Vi prego, fermatela!”
Bibliografia
Nesci, D.A. Il workshop cinema e sogni. Eidos, n. 10: pagg. 12-13, 2007.
Sabbadini A. Moving Images. London: Routledge, 2014.
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